Di seguito l’articolo da noi scritto per la testata giornalistica online QdN-Qualcosa di Napoli, leggibile anche a questo link.
Uno dei cardini del nostro ordinamento giuridico è l’eguaglianza dei cittadini italiani di fronte alla legge. Ma se nello stesso territorio della Repubblica le leggi sono differenti in base al luogo di residenza del cittadino, e per un aspetto molto importante della vita civile qual è quello dell’abitare (e dell’utilizzo di beni immobili in genere), possiamo ritenere rispettato il dettato costituzionale dell’art.3 dove recita appunto che i cittadini “sono eguali davanti alla legge”?
Su questo aspetto fondamentale impatta direttamente il Regolamento Edilizio comunale, già disciplinato nel 1942 con la legge n.1150 e poi definito nel Testo Unico dell’Edilizia (dpr n.380/2001 art.4) come quello strumento normativo che “deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi”. Quindi si tratta dello strumento principe per costruire, modificare e modernizzare le nostre abitazioni, i nostri uffici, negozi, capannoni, box auto e insomma ogni manufatto edile costruito dall’uomo nel territorio comunale. E qui sta il punto. Nel territorio comunale. Perché in una materia tanto importante del vivere civile, in Italia vige ancora un ordinamento di memoria medievale fondato su un’idea di città-stato, dove ognuno degli 8.057 comuni della Penisola adotta un proprio regolamento edilizio. E per capire gli effetti pratici di tutto ciò sulla effettiva eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, basti pensare che alcuni italiani potrebbero essere liberi di effettuare determinate opere edili sulla propria proprietà immobiliare ed altri invece no, vedendosela vietata oppure sottoposta al rilascio di titoli edilizi abilitativi altrove invece non richiesti.
Per ovviare a quanto sopra, dopo un lungo confronto tra le parti, il 20 ottobre 2016 è stata raggiunta un’intesa (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.268 del 16/11/2016) tra Governo, regioni e comuni per il via libera al Regolamento Edilizio Unico Nazionale. Fu vera gloria? Purtroppo no, e tra le maglie della normativa possiamo già intravedere il classico “nulla di fatto”. Mentre infatti da un lato si fa qualche passo avanti verso la standardizzazione delle definizioni dei più importanti parametri edilizi-urbanistici (superficie, carico urbanistico, sagoma, sottotetto, soppalco, altezze, distanze, volume, pertinenze, balcone, ballatoio, loggia, terrazza, tettoia, veranda ed altri), dall’altro lato si è ancora lontani dall’imporre di fatto ad ogni regione e ad ogni comune il rispetto dei medesimi diritti ai cittadini in materia. E questo ben oltre le dovute differenze da prevedere per le innegabili differenze tra i vari contesti geografici ed urbani presenti sul territorio della Penisola.
In primo luogo i tempi di attuazione fanno slittare alla fine del 2017 l’adozione del Regolamento Tipo, e non è prevista alcuna sanzione per le amministrazioni che saranno inadempienti o troppo lente nell’adozione dello stesso. In secondo luogo l’unico standard che regioni e comuni saranno obbligati a rispettare è nella sostanza un indice del cosiddetto “regolamento edilizio tipo” composto da due parti: la prima dovrà contenere i principi e la disciplina generale dell’attività edilizia, la seconda le disposizioni regolamentari comunali, dettagliata per titoli e capi. In pratica, ogni regione e ogni comune può personalizzare i contenuti del proprio regolamento limitandosi a rispettare unicamente l’indice previsto dall’accordo in esame. In tal caso, di unico e nazionale avremo purtroppo solo gli indici dei regolamenti edilizi di ogni comune italiano. Questo pericolo è stato del resto già anticipato dal cambiamento di denominazione che il progetto stesso ha subito in itinere: inizialmente presentato come regolamento unico, ha assunto poi la suddetta denominazione di regolamento tipo. Ri-denominazione che è il frutto del compromesso raggiunto dopo il braccio di ferro tra le parti, ma il cui risultato ha purtroppo un sapore più politico che di reale utilità per tecnici e cittadini. A ciò si aggiunga che le regioni possono anche modificare l’indice-tipo, possono dettare norme transitorie sullo stesso, possono interpretare diversamente le definizioni standard e, infine, possono anche regolamentare l’iter di adeguamento alle nuove norme da parte dei comuni. Ci si chiede a questo punto cosa resterà dello sforzo dichiarato, beninteso lodevole, di standardizzazione dell’attività edilizia sull’intero territorio della Repubblica. Risposta rinviata alla fine del 2017.