Con la crescita del suo pil dello 0,30% nel primo trimestre 2015, l’Italia è stata dichiarata ufficialmente fuori dalla recessione economica, secondo definizione tecnica. Ma leggendo più approfonditamente questo dato si rileva che scorporando da esso i numeri relativi ai settori trasporti ed auto, il pil resta ancora
negativo. E purtroppo tale resterà se il governo italiano non saprà conquistare in Europa lo spazio di manovra e le risorse che l’Italia merita in ragione del suo peso economico e politico, spezzando il ricatto sul nostro elevato debito pubblico. Cerchiamo di capire perché.
La crisi era già finita nel 2014, ma poi l’Europa introdusse gli stress test per le banche e la ripresa fu bloccata, in Italia ma non in Germania. Già alla fine del 2010 una variante in corso d’opera aveva fortemente danneggiato la nostra ripresa, a vantaggio di altri, e in quel caso le modalità furono addirittura preoccupanti. Si istituì allora un Fondo Europeo con la funzione di garanzia degli eurobond da emettere a sostegno diretto delle economie in crisi, tra le quali l’Italia (cosiddetto fondo salva-Stati); come modalità di finanziamento del fondo si scelse che ogni singolo paese doveva versare una quota proporzionale al proprio peso economico in Europa, in pratica si seguiva il rapporto pil-paese/pil-europa. E quindi l’Italia, come terzo paese per pil, fu uno dei maggiori contributori del fondo. Ma quanto ne beneficiò? Quel fondo poco dopo fu trasformato, da altri, in fondo salva-banche, ma si tralasciò di modificare anche la modalità di contribuzione ad esso. L’allora ministro del tesoro Giulio Tremonti propose di adottare un criterio che rispecchiasse la specifica rischiosità dei sistemi bancari dei singoli paesi, piuttosto che il criterio del pil, e questo perché il nostro sistema bancario era più solido di tanti altri. Il risultato fu il famoso assedio internazionale allo spread btp-bund (complice anche la stampa amica) e la caduta del governo italiano, con l’instaurarsi dei governi tecnici da Monti in poi, voluti da Bruxelles. Questi nostri governi lasciarono carta bianca a Berlino sul tema, permettendo anche l’assurdo di trasferire, dall’Italia alle banche spagnole o portoghesi e simili, molto più dei quattro miliardi di euro trasferiti dallo stato italiano alle proprie banche. E a quale costo lo vedremo tra breve.
Altrove i governi nazionali, tecnici o politici che fossero, immisero ampiamente (e ancora immettono) denaro pubblico nelle loro economie interne (denaro ottenuto da Bruxelles e quindi anche dall’Italia), non solo nelle banche nazionali, ma anche direttamente nelle proprie imprese. Oltre alla Spagna, lo ha fatto la Germania con la Commerzbank, le landesbank e le sparkasse. Lo hanno fatto gli USA (con i loro dollari) con General Motors e Chrysler, oltre che con diversi istituti di credito. In Italia nulla di tutto ciò è stato possibile, e anzi quando il ministro Tremonti, sempre lui, introdusse in Italia i bond che portano il suo nome per aiutare le banche italiane, Bruxelles impose l’altissimo costo del 10% come tasso di remunerazione di quei prestiti. E questo perché eravamo (e siamo) schiacciati dal rispetto di parametri gravosi in ragione della elevata misura del nostro debito pubblico.
Ora da più parti arriva l’invito a farci esultare per l’uscita dalla recessione. Il premio Nobel Amartya Sen ha chiaramente affermato che solo in Europa si festeggia una crescita dell’1-2%, mentre altrove parlerebbero di crescita solo a partire da un 5-6%. Figuriamoci di un prospettico +0,7% italiano. Un altro famoso premio Nobel per l’economia, Nouriel Roubini, teme addirittura lo scoppio di una nuova bolla finanziaria nel 2016, a motivo della discrepanza che si sta generando tra immissione massiccia di nuova liquidità nei sistemi finanziari da una parte, e crescita lenta di economia, inflazione e occupazione dall’altra parte. Insomma, un replay dell’ultima crisi, con ricchezze congelate nei mercati immobiliari e azionari, senza effetti benèfici su consumi e diffusione di ricchezza, preparando un nuovo crollo di entrambi i mercati. Per inciso, è già in atto una nuova forte ondata di acquisti sull’immobiliare italiano da parte di stranieri, che da inizio anno ammonta a circa due miliardi di euro e per fine anno viene stimata in sei miliardi, solo per il non residenziale.
Segnali anticipatori di questo scenario in effetti si sono già visti recentemente. Mercoledì 13 maggio 2015 la diffusione di dati deludenti sulle vendite al dettaglio USA di aprile, altrimenti non di forte impatto, ha prodotto invece una veloce impennata (+0,62% in pochi minuti) del cambio euro/dollaro (quindi apprezzamento dell’euro e deprezzamento del dollaro), perché il dato è stato letto, giustamente, come un ulteriore fattore di rinvio dell’atteso rialzo dei tassi americani. Quindi i mercati finanziari fondano le loro aspettative di ulteriore allungo (dopo i recenti massimi raggiunti, già storici) sulla prosecuzione della politica monetaria espansiva delle banche centrali, piuttosto che su più sani parametri quali crescita degli utili, degli investimenti o dell’innovazione delle aziende. A conferma della tesi di Roubini.
Che il vento non sia dei migliori lo hanno ben capito anche i britannici, dove la riconferma elettorale di Cameron ha riacceso il dibattito sull’uscita del paese dall’Unione Europea, ipotesi che Londra osteggia meno che in passato e che anche Berlino non critica più tanto duramente. E il fatto, verificato ex post, che la mancata adesione all’euro abbia evitato alla Gran Bretagna il contagio della crisi dei paesi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), non può che rafforzare l’euroscetticismo di quanti sull’isola in passato non hanno voluto aderire nemmeno a Schengen, al Fondo Salva-Stati, al Fiscal Compact e alla Banking Union. Carattere inglese.
Riflessi immediati di tutto ciò sui mercati finanziari più direttamente interessati, cioè quelli dei titoli di Stato, fanno ormai parlare apertamente gli esperti di altissimo rischio bolla, a partire dal bund tedesco. Si passa velocemente da paure deflazionistiche a paure inflazionistiche, e gli squilibri tra domanda e offerta di bond sovrani influenzano pesantemente le altre asset class finanziarie. Più al riparo sembrano essere i mercati azionari, anche se i notevoli rialzi degli ultimi mesi hanno fatto definire “care” le borse dal presidente della Fed Janet Yellen, e “alti” i rapporti prezzo/utili dal presidente della Consob italiana Giuseppe Vegas. E anche l’azionario conferma i timori verso l’economia tedesca, considerato che ad aprile scorso sono stati smobilitati 3,2 miliardi di euro prima investiti in etf azionari della vecchia locomotiva europea di Berlino.
Una possibile, e per vari aspetti inquietante, soluzione ai mali dell’Italia potrebbe essere l’indiscrezione che vede la Merkel avanzare una aperta richiesta a Matteo Renzi: favorire il termine anticipato del mandato a Mario Draghi come presidente Bce, ormai poco gradito a Berlino. In cambio di cosa? Della agognata concessione di poter chiudere almeno tre bilanci italiani senza rispettare il vincolo del pareggio, il che conferma la convinzione che questa sia la strada migliore per la ripresa italiana. A ben guardare, un primo tentativo in tal senso si è già avuto con la proposta a Draghi della presidenza della nostra Repubblica. Altro esempio dell’atipico significato che le parole cooperazione, unione e sviluppo hanno ormai assunto in Europa. E in particolare nei confronti dell’Italia.
Raffaele Tortora